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Jobs Act – Nuovi ammortizzatori sociali, ecco chi ci perde

di Ufficio Stampa CGIL Siena | Marzo 25, 2015

Jobs Act – Nuovi ammortizzatori sociali, ecco chi ci perde

(foto Marco Merlini / Cgil) (immagini di (foto Marco Merlini / Cgil))

Con la Naspi, lavoratori penalizzati. In caso di licenziamento, sarebbero tutelati per un periodo più breve, con prestazioni minori e contribuzioni figurative più contenute

di Michele Raitano*, Eticaeconomia.it

Il decreto legislativo n. 22/2015, attuativo della legge delega sul Jobs Act, tra le altre cose ha ridefinito le caratteristiche del sistema degli ammortizzatori sociali introducendo la cosiddetta Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), in sostituzione dell’Aspi e della mini-Aspi, previste dalla riforma Fornero del 2012. Nelle intenzioni del governo la Naspi dovrebbe finalmente dare garanzie adeguate, in termini di durata e importo delle prestazioni, ai lavoratori dipendenti migliorando la situazione in cui tutti loro si verrebbero a trovare in caso di perdita del posto di lavoro (per i collaboratori a progetto è invece prevista nel decreto un’apposita, meno generosa, misura chiamata un po’ esotericamente Dis-Coll).

Per stabilire se la Naspi farà vittime, si utilizzerà il dataset Ad-Silc, un campione longitudinale costruito a partire dagli archivi amministrativi dell’Inps; mediante una serie di ipotesi sulle dinamiche di carriera, si simulerà la copertura potenziale a cui i lavoratori dipendenti del settore privato (inclusi gli apprendisti) avrebbero diritto in caso di licenziamento in base al nuovo scenario delineato dal Jobs Act e la si confronterà con quella a cui quegli stessi lavoratori avrebbero avuto diritto con Aspi e mini-Aspi. Per confrontare gli schemi di ammortizzatori sociali bisogna tenere conto di 4 elementi: 1) i requisiti di accesso alla prestazione; 2) la durata massima della prestazione; 3) l’importo della prestazione; 4) la contribuzione figurativa al sistema pensionistico che viene accumulata quando si riscuote l’indennità. Riguardo al primo punto, va ricordato che per ricevere le indennità di disoccupazione in Italia bisogna soddisfare specifici criteri contributivi che erano particolarmente stringenti nel caso dell’Aspi.

A quest’ultima, aveva diritto soltanto chi aveva versato 52 settimane di contribuzione nel biennio precedente la disoccupazione e almeno una settimana di contribuzione prima del biennio precedente il momento della disoccupazione (ad esempio, chi fosse stato licenziato il 1° gennaio 2015 avrebbe dovuto iniziare a lavorare come dipendente prima della fine del 2012 per essere tutelato). Chi non soddisfaceva i requisiti dell’Aspi (in primis i lavoratori intermittenti e le giovani generazioni), ma aveva versato almeno 13 settimane di contribuzione nei 12 mesi precedenti la disoccupazione, aveva diritto alla mini-Aspi.

I requisiti di accesso alla Naspi sono assai meno stringenti: è sufficiente che nel quadriennio precedente la disoccupazione si siano versate almeno 13 settimane di contributi e si siano svolte almeno 30 giornate di lavoro nei 12 mesi precedenti il licenziamento. Dal punto di vista dell’accesso alla prestazione la Naspi rappresenta, dunque, un sicuro miglioramento per i lavoratori dipendenti e accresce l’universalità dello schema.

Ciò è confermato dalla simulazione diretta a stabilire la quota di lavoratori dipendenti privati occupati in un dato momento che non sarebbero coperti dalle diverse indennità di disoccupazione qualora venissero licenziati (figura 1 dell’infografica). Infatti, il 15,7% dei lavoratori non soddisferebbe i requisiti dell’Aspi e il 5,1% non avrebbe diritto neppure alla mini-Aspi, mentre soltanto il 3,4% del nostro campione non riceverebbe la Naspi in caso di licenziamento.

Oltre che sui requisiti di accesso, il Jobs Act è intervenuto sulla durata massima della prestazione e sugli importi delle prestazioni e delle contribuzioni figurative. La durata massima dell’Aspi era di 10 mesi per i lavoratori under 50 (12 per chi aveva fra 50 e 54 anni e 16 mesi per gli over 54), mentre la mini-Aspi veniva erogata per la metà delle settimane lavorate nei 12 mesi precedenti la disoccupazione (dunque per un massimo di 6 mesi). La Naspi, similmente alla mini-Aspi, commisura la durata della prestazione alla contribuzione precedente e prevede una prestazione erogata per la metà delle settimane di contribuzione nel quadriennio precedente la disoccupazione, con un massimo di 18 mesi (aumentato a 24, in via transitoria, per il biennio 2015-2016).

Tuttavia, dal calcolo della durata vanno detratte le settimane di sussidio eventualmente già corrisposte nel corso del quadriennio: ad esempio, chi avesse lavorato continuativamente 6 mesi ogni anno ricevendo un sussidio per i periodi di non lavoro, al termine dei 6 mesi di lavoro del terzo anno di attività con l’Aspi avrebbe avuto diritto a 10 mesi di sussidio; ora invece, con la Naspi, ne potrebbe ricevere solo 3 (18 mesi complessivi di lavoro darebbero infatti diritto a 9 mesi di Naspi, di cui però 6 già goduti in precedenza). Al di là della diversa base di calcolo dei requisiti (il biennio per l’Aspi, l’anno per la mini-Aspi, il quadriennio per la Naspi), la possibilità che le nuove norme, apparentemente più generose, comportino una riduzione della durata potenziale dei sussidi è confermata dalle nostre simulazioni.

Da esse emerge (figura 2 dell’infografica) che il periodo massimo potenziale di erogazione del sussidio si ridurrebbe per il 3,8% dei dipendenti privati e, soprattutto, che le nuove norme penalizzerebbero in misura relativamente maggiore i dipendenti a termine, caratterizzati spesso da carriere molto frammentate con frequenti entrate e uscite dalla disoccupazione. Il 10,3% dei dipendenti a termine, infatti, a causa della sottrazione dei periodi di sussidio già ricevuto, riceverebbero come Naspi un sussidio potenziale di durata inferiore a quello a cui avrebbero avuto diritto in base alla precedente normativa.

La Naspi è apparentemente più generosa
dei precedenti sussidi anche per quanto riguarda l’entità delle prestazioni. L’importo di Aspi e mini-Aspi era pari al 75% della retribuzione media dei mesi lavorati negli ultimi due anni, fino a un massimale (1.192,98 euro nel 2014), e al 25% della quota di retribuzione eccedente il massimale, fino a un importo massimo della prestazione fissato pari a 1.150 euro al mese nel 2014. L’importo teorico della Naspi è invece superiore, dato che l’importo massimo della prestazione è stato portato a 1.300 euro al mese (la base di calcolo è ora la retribuzione media del quadriennio precedente il licenziamento, anziché del biennio).

Tuttavia, mentre l’Aspi rimaneva di importo costante fino al sesto mese di erogazione, per poi diminuire del 15% (e di un altro 15% dal tredicesimo mese per gli over 54), nel Jobs Act si è stabilito che, a partire dal quarto mese di erogazione, l’importo della Naspi si riduca ogni mese del 3%. Nulla assicura, dunque, che in termini di prestazioni complessivamente ricevute la Naspi sia più generosa dell’Aspi. Per verificare ciò abbiamo pertanto calcolato quanto riceverebbero, qualora la disoccupazione durasse esattamente 6 mesi, i lavoratori del nostro campione e abbiamo calcolato la differenza fra l’importo complessivo che si sarebbe ricevuto nei 6 mesi nello scenario pre e post Jobs Act (figura 3 dell’infografica).

Nonostante l’incremento della prestazione massima, che avvantaggerebbe i lavoratori a salario medio-alto qualora questi dovessero cadere in disoccupazione, le norme sul decalage della prestazione comportano che per oltre metà del campione (54,2%) l’ammontare complessivo di Naspi che si riceverebbe nei 6 mesi di disoccupazione si rivelerebbe inferiore a quello che sarebbe stato pagato in base alle vecchie norme.

La nuova normativa risulta ancora meno generosa rispetto alla contribuzione figurativa a fini pensionistici che si accumula nel periodo di erogazione del sussidio. Mentre in base alla precedente normativa era accreditata una contribuzione pari al 33% della retribuzione media del periodo precedente il licenziamento, la riforma ha previsto che la retribuzione su cui si calcola la contribuzione figurativa non possa eccedere 1,4 volte l’importo massimo della Naspi (ovvero 1.800 euro al mese nel 2015). Le quote di retribuzioni eccedenti tale importo non danno diritto a contribuzione figurativa, penalizzando così i lavoratori con salario medio-alto che dovessero cadere in disoccupazione.

La rilevanza della riduzione è confermata dalle nostre simulazioni su quanto avrebbero accumulato a fini previdenziali i lavoratori del nostro campione in caso di disoccupazione di 6 mesi di durata nel vecchio e nel nuovo scenario normativo (figura 4 dell’infografica). Con il nuovo sistema l’83,6% del campione accumulerebbe nei 6 mesi una contribuzione figurativa inferiore a quella a cui avrebbe avuto diritto in precedenza.

Sulla base di queste simulazioni
si può pertanto affermare che se si tiene conto di tutte le circostanze rilevanti, e non solo dell’ampliamento della platea di potenziali beneficiari, la Naspi non consentirà quel miglioramento generalizzato di cui si parla. In altri termini, essa farà dei perdenti. Saranno tali quei lavoratori, e non sono pochi, che, in caso di licenziamento, sarebbero tutelati per un periodo più breve, riceverebbero prestazioni di minore entità e si vedrebbero riconosciute contribuzioni figurative più contenute. Non solo. Come si è visto a proposito della durata delle prestazioni cui avrebbe diritto una discreta quota di dipendenti a termine, a essere maggiormente penalizzati potrebbero essere proprio i lavoratori più esposti al rischio di incorrere in frequenti periodi di non lavoro.

*Ricercatore in Politica economica presso l’Università di Roma La Sapienza

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