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Camusso, non siamo noi i gufi. Non è vero che il sindacato dice solo no

di Ufficio Stampa CGIL Siena | Agosto 22, 2014

Camusso_2Camusso, non siamo noi i gufi. Non è vero che il sindacato dice solo no

22/08/2014 da www.cgil.itIntervista del Segretario Generale della CGIL, Susanna Camusso all’Espresso.

Gufo chi? Susanna Camusso non ci sta. Non ci sta a essere liquidata come il capo del partito del ‘no’, del sindacato che mette i bastoni fra le ruote al governo Renzi, che frena le riforme e difende lo status quo. E così alla vigilia della guerra d’autunno sulla riforma della pubblica amministrazione, il segretario generale della CGIL racconta la sua contro-riforma a ‘l’Espresso’. E dà battaglia al governo.

Dai dubbi sul piano anti-burocrazia, che «è una riforma alla Brunetta». Fino alle ricette per economia e lavoro. Che portano solo nuova precarietà.

Camusso, lei firmò la prefazione del libro di Marianna Madia: “Precari. Storie di un’Italia che lavora”. «Era qualche anno fa».

Nel 2011, ma adesso Madia è il ministro che vuole riformare la pubblica amministrazione. La riscriverebbe quella prefazione con lei? «Sì, certo. In quel caso parlava di precari e la sua visione non era distante dalle nostre proposte. Io resto di quell’idea, oggi, forse, sarebbe lei piuttosto a essere un po’ più critica sull’argomento…».

Dopo Brunetta e i “fannulloni”, oggi è il governo Renzi a mettere mano alla riforma. Che ne pensa? «Penso che prosegua nella stessa filosofia e negli stessi errori. Dopo Bassanini, che andava verso la ” privatizzazione” dei contratti, come indicava da tempo la Cgil, il primo passo indietro è stato quello di Brunetta. Oggi riformare la pubblica amministrazione significa semplificarla e questa riforma adotta invece soluzioni che vanno nella direzione opposta: ingessano ulteriormente il sistema. Si deve arrivare a una regolazione dei rapporti di lavoro e a forme organizzative stabilite per via  contrattuale, come nel privato. Invece si cerca sempre di sottomettere le decisioni alla politica, o si paralizza l’amministrazione sommergendola con leggi e regolamenti».

Eppure, a sentirei proclami, tutti ripetono proprio questo: meno burocrazia, modello privato, merito, responsabilità. «A parole. In realtà è il contrario: è come se si considerasse la pubblica amministrazione lo staff della politica, anziché garantirle la terzietà. La politica non distingue fra funzione di Stato e funzione di governo e questo porta a due effetti distorti: non c’è vera responsabilità di chi dirige, perché non c’è vera indipendenza; secondo, sono proprio i burocrati a contare di più. La Ragioneria dello Stato, spesso, decide più del governo».
Pronti a un autunno caldo a Palazzo? «Non è nelle nostre intenzioni ma, sì, potrebbe essere. Siamo preoccupati, non vediamo le risposte necessarie a una domanda molto importante: che tipo di amministrazione vogliamo in Italia? Il progetto presentato dal governo non soddisfa e non intacca le troppe rendite di posizione in campo».

A Palazzo Chigi dicono che frenate voi. «Bubbole, il decreto legge del governo ha finito per salvare e preservare tutti quelli in grado di esercitare una lobby. Così si finisce solo per penalizzare i lavoratori e, al massimo, per fare tagli lineari adducendo cifre valutazioni che non stanno in piedi e non hanno riscontro in nessun Paese d’Europa. L’effetto è paradossale: si taglia proprio dove il governo ripete ogni giorno di voler investire».

Faccia esempio? «Ci troviamo a licenziare precari nei settori strategici: centri per l’impiego e tribunali, cioè lavoro e giustizia, le priorità a parole del governo. Tutto perché si continua a agitare e ad agire per lo slogan. Si ripete un mantra,” tagliare le spese”, senza mai discutere quali e a quale scopo».

La sua contro-riforma? «La nostra riforma? Ribaltare la visione. Oggi sono i cittadini a dover svolgere il “back office” della pubblica amministrazione, vagano di ufficio in ufficio, ricostruiscono i propri dossier, rimettono insieme informazioni già disponibili e non necessarie. Dovrebbe essere il contrario. Le amministrazioni vanno organizzate in modo che possano scambiarsi i dati, trovare le risposte necessarie e poi render conto al cittadino. Per fare questo non servono sistemi punitivi o la mobilità dei dipendenti, serve un ragionamento complessivo, e ancor prima una visione, su quali servizi sono necessari e su come realizzarli. Poi si modulano le risorse in base a questo progetto. Quello che c’è oggi è un sistema anarchico in cui le singole amministrazioni decidono, ognuna per contro proprio, per tagli lineari, cosa e come ridurre, generando caos e costi inutili. Come con la digitalizzazione: ogni pezzetto di Stato si è informatizzato da solo, con appalti diversi, non compatibili con l’ufficio del piano di sopra».

Ci sono pure gli sprechi e gli assenteisti. Si sono viste cose raccapriccianti in Italia-Con dirigenti che non hanno mosso un dito. E sindacati che difendevano l’indifendibile. «Senza dubbio ci sono casi che vanno sanzionati, ma non sono episodi che possano accomunare i tre milioni di lavoratori del pubblico, sono eccezioni. E le eccezioni anche gravi si affrontano solo grazie a regole certe. Non è nemmeno vero che nei contratti non ci siano le norme per far fronte ad episodi di malcostume, di inefficienza o di assenteismo. La verità è che, spesso, non si agisce perché manca la volontà di mettere in discussione le protezioni politiche di cui gode il sistema. Quanto ai dirigenti, il governo ha posto il tema della responsabilità dei dirigenti, solo che anziché renderli autonomi dalla politica li ha resi ancora più dipendenti, diminuendone di fatto la capacità di intervento».

Renzi è convinto che proprio riformando questa idea sparirà. Ma dice di essere solo. «Solo vuole esserlo. Un leader che prende il 4 l per cento alla prima prova elettorale non può lamentarsi certo dell’isolamento. Che serva una riforma la Cgil lo dice da molto tempo, ben prima di Renzi. Ma quando fai una grande riforma devi esplicitare con grande chiarezza il tuo progetto e il tuo punto di arrivo, devi decidere quali alleanze costruisci, devi scegliere a chi dare risposte e a chi no, cosa mantieni e cosa cambi. E poi in quel 41 per cento ci sono molti iscritti della Cgil. Il premier sembra non essere contento di questo, ma se ne farà una ragione. A mio parere l’uomo solo che fa tutto, mentre gli altri lo ostacolano, non funziona nella pratica. Funziona come idea di marketing. Ma non è una novità introdotta dall’attuale presidente del Consiglio. Sono anni che in Italia prevale la logica del sì e del no. Prima decidi con chi stai, poi cosa vuoi fare. Così contrappongono pubblico e privato, padri e figli in nome di un cambiamento che, chissà perché, si presuppone sempre positivo. Ma “cambiamento” è una parola neutra, può essere anche un disastro».

Non crede che li governo ci stia provando? «Renzi lo dice. Ma questo governo sembra avere un limite: ha meno coraggio di quel che dichiara. Sembra gli manchi proprio la volontà di affrontare ciò che crea problemi veri alla politica, che non sono i lavoratori che difendono un contratto, ma ben altri nodi come la corruzione o l’evasione fiscale. Nodi su cui si sono costruite anche alcune formazioni politiche. I poteri forti che bloccano il cambiamento non sono i sindacati, ma la catena di distribuzione del reddito. Oggi sull’evasione, ad esempio, il governo è fermo. L’ultimo che fece qualcosa  è stato Visco. E pensare che con un maggiore utilizzo della moneta elettronica si avrebbe un netto miglioramento nella lotta all’evasione e all’elusione. A volte basta davvero poco per grandi riforme, ma bisogna averne la volontà politica e la determinazione giusta».

Lui dice di essere osteggiato da tutti: gufi, rosiconi… e sindacati. E un po’ la Cgil dà l’idea di dire sempre di no. Un po’ gufo, no? «Altro che gufi. Noi siamo fra i precursori e spesso tra gli ispiratori di alcune riforme. Siamo contrari al bicameralismo perfetto e lo eravamo da quando ancora non se ne parlava. Siamo per il Senato delle autonomie da prima che se ne discutesse. A proposito di riforme costituzionali siamo per la piena applicazione dell’articolo 39 e 46. Vorremmo rivedere lo Statuto dei Lavoratori per allargare le tutele a tutti coloro che oggi non le hanno, come i precari. Abbiamo proposto una revisione degli ammortizzatori sociali,l’assegno di disoccupazione universale. Siamo in prima fila nella lotta alla precarietà e allo schiavismo, sì vero e proprio schiavismo, nelle nostre campagne…».

E allora perché c’è questa sensazione? «In Italia, da troppo tempo non c’è la possibilità di discutere sulla sostanza di una riforma, per poi decidere insieme come vada fatta. C’è il “prendere o lasciare” camuffato da una falsa democrazia partecipativa fatta per email che sembra allargare a dismisura la discussione per lasciarla, in realtà, nelle mani di pochissimi. Una strettissima élite che ha già deciso per tutti cosa e come vanno realizzate le riforme».

In molti paesi d’Europa, però, part time e flessibilità hanno dato risultati. «Il modello straniero importato tout court in Italia non funziona. Tutti part time come gli olandesi? Va bene, ma con i loro redditi, molto più alti dei nostri. Adottiamo il modello danese? Peccato che abbiano meno abitanti della Lombardia. Guardiamo all’Irlanda? Poi si è visto come è finita. È a dir poco molto provinciale copiare i modelli stranieri. Il dato oggettivo è che, per quanto riguarda l’Italia, la maggiore precarietà è stata un elemento di debolezza, non di forza».

Avrà pure sbagliato anche lei. «C’è stato un momento in cui, nella lotta alla precarietà e alla cattiva flessibilità, ci siamo affidati troppo al tentativo di cambiare le leggi sul lavoro del governo Berlusconi. Il tema che in realtà avremmo dovuto affrontare era il cambiamento del modello di contrattazione. Il sindacato ha un problema: c’è troppo lavoro non rappresentato dai contratti. Se avessimo insistito maggiormente su questa idea, oggi saremmo in un contesto diverso. E poi ci siamo trovati anche di fronte a impegni non mantenuti».

Per esempio? «Abbiamo proposto di definire il contratto a tutele crescenti a fronte dell’esclusione di contratti precari e la risposta è stata il decreto di liberalizzazione dei contratti a termine».

Eppure dalla Cgil non sembra arrivare una vera apertura di credito al governo. Qualcosa di simile a quello che fece Lama negli anni Settanta sul salario, che turbava la sinistra d’allora proprio come capita oggi con Renzi. «Le epoche non sono mai paragonabili tra loro. F folle pensare a come avrebbe agito qualcuno in un’altra epoca. A maggior ragione in un momento in cui, anziché discutere di come creare lavoro, discutiamo di come togliere tutele a quelli che un lavoro ce l’hanno. Forse bisognerebbe dire che questo modello, che nasce proprio negli anni Ottanta, era sbagliato allora come oggi. Ha creato disuguaglianze, che sono fattore di crisi non effetto della crisi».

Prenda Alitalia, però, era sull’orlo dei fallimento e, anche In questo caso, il no si è alzato da lei. «Non è affatto così».

E com’è? «La Cgil è stata fra le prime a dare il benvenuto al socio arabo. Non solo perché si rischiava il fallimento di Alitalia, ma perché Etihad aveva un progetto di sviluppo, a differenza dei “capitani coraggiosi” di Berlusconi il cui unico progetto fu quello di investire solo sulla tratta Roma-Milano. Il dissidio tra noi, azienda e governo è legato alla modalità di gestione del personale. Il sindacato, e il governo che ha compiuto un tentativo apprezzabile e condiviso anche se troppo timido, riteneva che fosse possibile un atterraggio morbido per tutti i lavoratori  utilizzando le forme di cassaintegrazione messe a disposizione dal ministro del Lavoro, in modo da verificare con lo sviluppo della nuova compagnia le possibilità occupazionali reali e di ricollocare nelle attività che subentreranno ai tagli di attività nuova Alitalia».

E chi l’ha impedito? «L’azienda era ormai guidata dagli avvocati, non più dal management a cui sono saltati i nervi. Avevano fretta, paura, le banche premevano. E così una soluzione praticabilissima è stata giudicata una strada impercorribile. Hanno poi avvelenato ulteriormente il clima con veri e propri colpi di genio, come avviare la procedura di mobilità il 2 agosto, nel pieno delle partenze estive, senza avere ancora concluso con Etihad… e la Cgil avrebbe delle colpe?».

Non crede che II sindacato abbia un’immagine vecchia? Che il mondo sia cambiato e voi no? «Siamo l’immagine di questo Paese, siamo cambiati come e insieme all’Italia: un tempo l’industria occupava la maggior parte dei lavoratori, oggi il commercio e i servizi; diversamente da 50 anni fa, per ogni lavoratore attivo c’è un pensionato. Come in Cgil. Abbiamo quasi 6 milioni di iscritti. Ogni hanno c’è un turn-over nel tesseramento del 20-25 per cento significa che ogni anno più di un milione di associati si iscrivono alla Cgil e altri la lasciano. Siamo un’organizzazione democratica e plurale. La coincidenza fra iscrizione e scelta politica non è affatto automatica, da molti anni. Anzi, sempre più di frequente i dirigenti della Cgil non hanno appartenenza politica, cercano solo di essere bravi sindacalisti. Siamo lo specchio di un Paese che è mutato. Non siamo certo noi la diga di un’Italia che vuole restare immobile».

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